“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia.”

da OGNI COSA E' ILLUMINATA - Jonathan Safran Foer

venerdì 4 settembre 2015

UNA FAMIGLIA

Marzi 228 anni fa. Anno 1787, 24 marzo.
Dietro la scrivania il notaio Michele Zumpano più che scrivere stava compiendo quello che chiunque oggi considererebbe un miracolo di pazienza. Intingere con parsimonia il pennino nell’inchiostro per poi appoggiarsi e scrivere con calma e in bella grafia fino a riempire otto ruvidi fogli di carta spessa. Attento a non fare macchie, a non calcare troppo o troppo poco, a non commettere errori di grammatica, di ortografia e, nel frattempo, costruire un atto che stesse in piedi sotto il profilo logico e giuridico. Ma, 228 anni fa, di tempo e di pazienza ce n’era in giro un sacco.

Davanti a lui, o meglio dall’altra parte della scrivania, c’era una intera famiglia. O quasi.
Li immagino tutti vestiti tutti bene per l’occasione (che allora voleva dire mettersi il meno logoro dei due o tre abiti in loro possesso): c’era una madre, Caterina Tucci, che aveva passato più tempo da vedova che da sposata. Erano infatti trascorsi 15 anni da quando suo marito Vincenzo Li Marzi, a soli 33 anni, aveva “reso l’anima a Dio”. Non riesco a pensare ad un definizione migliore della morte. Un tempo la usavano i parroci per redigere i certificati di morte ed è questa la formula utilizzata, quando Vincenzo se ne andò nel 1772, anche dal parroco della chiesa di Santa Barbara a Marzi:

Documento prodotto dal nipote Raffaele Limarzi in occasione del suo matrimonio
(Marzi 1828)

C'erano poi due dei tre figli che Vincenzo e Caterina fecero in tempo a mettere al mondo: Antonio, il loro primogenito, nato fra il 1760 e il 1763 e Pasquale, il più piccolo, nato nel 1769. Mancava invece il mediano, Stefano, che impossibilitato a presenziare aveva provveduto, tramite procura scritta, a farsi rappresentare nell’occasione dal sacerdote Fedele Tucci. La scelta, del resto, non fu affatto casuale: don Fedele oltre ad essere un religioso (all’epoca una delle fidate figure alle quali ci si rivolgeva per questo genere di delicati incarichi), era anche il fratello minore di Caterina e quindi zio di colui che rappresentava.
Non sapremo mai cosa indusse Stefano quel giorno a mancare un appuntamento tanto importante. Viene da pensare che fosse malato, forse anche gravemente, oppure che fosse, in quel periodo, lontano da Marzi. Di sicuro si trattava di qualcosa che non li colse di sorpresa. La procura, fatto strano, era stata infatti redatta diversi mesi prima dell’atto, nell’ottobre del 1786 chiudendosi con la firma e la frase di rito scritta di proprio pugno dal ragazzo:



Stefano quindi sapeva scrivere come del resto, lo so per certo, anche Pasquale. E lo stesso valeva quasi sicuramente (anche se non ne ho riscontro) per Antonio. A quei tempi, infatti, il primogenito era sempre il privilegiato, istruzione compresa. Impensabile che ciò che era toccato ai suoi fratelli minori non fosse toccato a lui.
Saper leggere e scrivere, all’epoca, non era certamente la regola, bensì un’eccezione ed una prerogativa che si ritrovava in pochi appartenenti ad una ristretta cerchia di famiglie. Il fatto che, al contrario, Vincenzo fosse riuscito a garantire l’istruzione a tutti i suoi figli forse a qualcuno può sembrare un dettaglio secondario, ma non lo è. In realtà ci rivela come egli possedesse entrambi i requisiti fondamentali per poterlo fare: una grande lungimiranza e dei buoni mezzi economici.
La lungimiranza risiedeva nell’aver capito che la chiave per provare ad assicurare ai propri figli un futuro migliore stava nell’istruzione; i buoni mezzi economici, in tutta evidenza, rappresentavano la condizione indispensabile per tradurre ogni buona intenzione in fatti concreti.

Senza dubbio, a mettere assieme le due cose, lo aveva aiutato non poco suo padre Nicolò che a sua volta lo aveva spedito a scuola da ragazzo (erano solo in 22 che ci andavano in una Marzi che sfiorava i 1.000 abitanti) e che da semplice mulattiere (un mestiere umile ma redditizio), grazie al suo lavoro e ad un certo fiuto per gli affari, era riuscito ad accumulare un discreto patrimonio.
Al resto contribuì Caterina che, appartenendo anche lei ad una famiglia che stava discretamente bene, portò una buona dote a Vincenzo . Anche in questo caso niente sfarzo, per carità, ma suo  padre Luc’Antonio possedeva in società con suo fratello Domenico un mulino alla "fiumara da''Ara" che dava il suo buon reddito il che gli permise di accasare la figlia con quel buon partito che era Vincenzo. 

So bene che facendo certi ragionamenti non si dà il giusto spazio al romanticismo, ma sarebbe ingenuo non pensare che, oltre che dell'amore, il loro sia stato un matrimonio figlio degli usi e dei costumi del tempo che imponevano alle coppie di formarsi quasi esclusivamente fra individui del medesimo ceto sociale. A questo proposito non può essere una coincidenza il fatto che i rispettivi genitori (Nicolò e Luc'Antonio) fossero, se non amici, di sicuro ottimi conoscenti: di qui fino ad arrivare ad ipotizzare che fra i due sia intervenuta una sorta di “contrattazione” il passo è breve.

Insomma, alla fine Vincenzo certamente per meriti suoi, ma agevolato dall'eredità paterna e dai beni di Caterina, stava piuttosto bene economicamente: una vigna, un castagneto, due chiuse (piccoli appezzamenti di terreno recintato), un orto, un paio di case ed una certa disponibilità di denaro. 
Addirittura si trova traccia di un suo prestito di una considerevole somma a Francesco Golia, cosa che oggi lo farebbe scambiare per un usuraio, ma che ai tempi rappresentava una prassi consueta.
Trecento ducati ceduti, al tasso (tutt'altro che esoso) del 5%, in una sorta di finanziamento perpetuo. Golia in pratica poteva tenere la somma sin quando voleva purché pagasse al suo finanziatore la somma di 15 ducati annui (il 5% di 300 appunto) come interesse. In caso di sua morte il debito sarebbe passato ai suoi figli, viceversa, nel caso in cui fosse morto per primo Vincenzo, il credito sarebbe andato a beneficio dei suoi eredi. In qualsiasi momento era possibile estinguere (affrancare) il  debito, con la restituzione dei 300 ducati e la transazione si sarebbe definitivamente chiusa così.

Non se li è goduti molto quegli interessi Vincenzo. Antonio era adolescente, mentre Stefano e Pasquale erano ancora dei bimbi quando il padre mori e lasciò loro quel credito, la casa, le chiuse, la vigna e tutto il resto.

Per i successivi 15 anni quell'intero patrimonio sarebbe rimasto esattamente così, come l'avevano ricevuto: integro ed indiviso. Tutti questi anni i tre li trascorsero, crescendo sotto lo sguardo vigile della madre, nella casa di famiglia alla “Ruga delli Vaccari” senza mai porsi il problema della spartizione di quel lascito. E così fu sino a quando Antonio conobbe Rosa Garofalo che nel 1884 sposò e con la quale andò a vivere sotto un altro tetto.
Il tempo e la naturale successione degli eventi aveva quindi spezzato, almeno formalmente, l’unità della famiglia (che, va detto, sotto il profilo dei legami affettivi non venne mai meno). Man mano che i mesi passavano, poi, diventava chiaro che, con Antonio fuori casa e i due fratelli più giovani che stavano per spiccare anche loro il volo, si avvicinava il momento di “spezzare” anche quella sorte di unità economica che li aveva contraddistinti. Ciò avvenne in realtà senza alcuna fretta, visto che ci vollero altri tre anni perché prendessero quell'appuntamento con il notaio. 


IL CONTENUTO DELL'ATTO

Alla fine le divisioni furono fatte e, si capisce dal tenore delle stesse, che esse erano il frutto di un accordo bonario già concordato da tempo e non provenivano da delle rigide spartizioni matematiche. Ognuno, infatti, tenne per sé non semplicemente "la propria parte", ma ciò che più gli era utile, mettendo nel giusto conto il valore delle cose, ma senza pesarlo in maniera ossessiva:

- la casa di Ruga Delli Vaccari rimase a Pasquale e Stefano, i due fratelli che ancora vi vivevano con la madre (negli anni successivi, poi, sappiamo che Pasquale a sua volta cedette la sua metà dell’immobile a Stefano);

- la vigna de “Lo Britto”, la chiusa di Repupa e quella di San Sebastiano invece andarono ad Antonio in cambio (testuale) di una gonna di “saja scarlatina” (la saja teoricamente è un tessuto povero, per “scarlatina” presumo si intenda il colore), di un corpetto di velluto e di sei ducati;


- la titolarità del prestito di trecento ducati rimase alla madre Caterina anche se in parte vincolato sino alla sua morte. Per la precisione la somma vincolata era di 180 ducati che sarebbero passati, dopo la sua dipartita, a ciascuno dei suoi tre figli nella misura di 60 ducati ciascuno. I rimanenti 120 ducati, al contrario, sarebbero rimasti nella sua più completa disponibilità;

- altri 30 ducati (denaro di famiglia) vennero assegnati sempre a Caterina. Tale somma, assieme ai 120 di cui sopra serviva a ricostituire la dote di 150 ducati da lei portata a Vincenzo per il matrimonio;

- ad Antonio rimase l’onere di pagare un debito a Bartolomeo Calabrese, in quanto il medesimo era stato contratto per lavori alla chiusa di Repupa;

- Antonio e Pasquale rimasero coobbligati per la restituzione di un prestito ottenuto da Francesco Mannella (futuro suocero di Stefano che sposò in seguito sua figlia Caterina) e di uno, più piccolo, nei confronti di loro cugino Bruno li Marzi. Si trattava di debiti a suo tempo da loro contratti congiuntamente e tali dovevano rimanere;

Facile constatare che, dopo questo atto, la proprietà dei beni di famiglia aveva acquistato una sua logica che soddisfaceva le esigenze di tutti. 

Il notaio Zumpano ha continuato ad operare a Marzi per i successivi venti anni e dei suoi servizi i Li Marzi si sono spesso serviti ogni volta che se ne presentava l'esigenza. Sfogliando i suo fogli di carta ruvida ho scoperto tante cose di loro ma, soprattutto, ho capito che davvero i Li Marzi erano una famiglia nel vero senso della parola. Quella giovane vedova e quei tre ragazzotti adolescenti affrontarono la vita facendo un fronte comune. In tanti atti, infatti, si coglie in maniera tangibile ciò che traspare da questo: la volontà di condividere sia gli oneri, sia gli onori della loro esistenza.

Ad un certo punto, in questi volumi, Caterina non la ritroviamo più: probabilmente è il segnale che, ormai, anche per la madre, divenuta anziana, era giunto il momento di rendere l’anima a Dio. E fu fortunata  a farlo prima di vedere ciò che sarebbe accaduto ai suoi amati figli:

Stefano e Pasquale glieli uccisero, durante l'invasione del 1807,  i francesi di Napoleone. Quando li appesero al patibolo erano ancora una volta uno di fianco all’altro, fino al loro ultimo respiro. Non so pensare a quali furono le ultime parole che si dissero, mentre si guardavano l'un l'altro negli occhi, con la consapevolezza che le loro vite stavano per finire. Impossibile anche solo immaginarlo.

"Avevano fomentato la rivolta” dissero di loro alla Gran Corte Criminale di Cosenza, ma in realtà erano solo due povere vittime di un esercito a cui nulla interessava se non di opprimere e spargere terrore. (cliccare qui per la loro storia completa)

Antonio invece sparì, non sappiamo come e non sappiamo quando, anche se accadde, molto probabilmente, in quel periodo. Niente e nessuno mai lo potrà confermare, ma io sono convinto che la sua scomparsa sia legata ai medesimi fatti che portarono alla morte i suoi fratelli. Troppo strana la coincidenza. Del resto è noto che le famiglie dei cosiddetti giustiziati, oltre a dover far fronte al dolore per la perdita del congiunto, cadessero in disgrazia. 
Ed è certo che, dopo quel 1807, di lui non si trova la benché minima traccia. Antonio sparì lasciando un tale vuoto dietro di sé da far pensare, come minimo ad una fuga precipitosa (magari per evitare la sorte toccata ai fratelli?) o, addirittura, alla sua morte. In quegli anni di tumulti assoluti non sarebbe stato certamente né il primo né l'ultimo caso di morte bianca.
E, si badi bene, il vuoto di cui sto parlando non è solo quello che pure ho avuto modo di riscontrare nelle mie ricerche, ma è quello che ci testimonia uno dei suoi più stretti famigliari nel documento che segue:

Siamo nel 1862, Stefano (un nome non a caso), un nipote di Antonio, si deve sposare e, secondo la legge occorre il consenso paterno. Suo padre però è deceduto e Stefano lo documenta regolarmente producendone il certificato di morte.

In subordine, come da prassi, viene richiesto il consenso del nonno o in alternativa la certificazione del suo decesso. Ed è qui che Stefano non sa che pesci prendere: non sa dove suo nonno Antonio è morto, non sa quando è morto e non sa nemmeno qual'è il suo ultimo suo luogo di residenza: 





Quanto ai beni che quel giorno dal notaio erano stati così accuratamente suddivisi è inutile dire che, a seguito di quella sentenza capitale, furono tutti requisiti. Insomma, la famiglia venne quasi interamente spogliata e sterminata.
Quasi. Perché quel tramonto fu il preludio di una nuova alba. La speranza prese il nome di due cugini: di Raffaele, il piccolo orfano di Pasquale (che sarebbe il mio trisnonno) e di quello di un altro giovane ragazzo, anche lui senza più un padre, di nome Vincenzo (che sarebbe il trisnonno di Bruno). Ed è esclusivamente grazie a quell'esile filo che, dopo più di due secoli, un giorno io e Bruno abbiamo potuto ritrovarci assieme a Marzi e riunire idealmente quella famiglia. 


ALBERO GENEALOGICO FAMIGLIA LIMARZI/LI MARZI
1630 - 2015
(premere qui)

Quelle pagine scritte con pazienza dal notaio Zumpano sono solo un banale pretesto: spero che si sia capito che non è certamente l'aspetto burocratico della vicenda che mi interessa. Il mio intento è ben diverso: è quello di raccontare a tutti i Limarzi e Li Marzi (attaccato o staccato poco importa) una storia che è diversa da tutte le storie che conoscono perché è la LORO storia, la nostra storia.

Chi volesse leggere o scaricare quelle otto pagine le può trovare qui sotto. Ho messo qualche nota per agevolarlo sperando che ne possa trarre un po' di aiuto. Io invece la lettura me la sono sudata tutta dovendo interpretare una grafia d'altri tempi senza conoscere né il linguaggio burocratico del '700, né il latino.


Da ultimo non mi posso esimere dal fare un'ultima raccomandazione: chi ha la medesima pazienza del notaio Zumpano se le legga, gli altri lascino pure perdere. Che poi non si dica che non l'avevo detto.





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mercoledì 12 agosto 2015

LE AVVENTURE DELL'ISPETTORE LIMARZI

Io non conosco Luigi Ciocchetti ma, imbattendomi in un suo racconto, sono rimasto piuttosto stupito quando ho visto che uno dei protagonisti della trama era un certo "ispettore Limarzi".

Spinto dalla curiosità mi sono messo a cercare qualche traccia di questo misterioso autore: la ricerca, devo dire, non si è spinta troppo lontano visto che si trattava di un noto avvocato forlivese con la passione per lo scrivere. L'ho contattato scrivendogli e chiedendogli cosa lo avesse spinto a utilizzare questo cognome e lui, con molta cortesia, mi ha risposto che non c'era un motivo vero, ma che semplicemente si trattava di "un cognome dalla sonorità gradevole ma anche importante" che gli era piaciuto utilizzare. Mi ha anche detto che stava pensando ad una nuova avventura dell'ispettore Limarzi e che se avessi avuto qualche idea o suggerimento era il benvenuto.

Il racconto, per la cronaca, è piuttosto gradevole e facilmente fruibile in forma gratuita su internet. L'ispettore Limarzi ne esce come personaggio assolutamente positivo, quindi perché non leggerlo? A fondo pagina trovate il link.



FUORI
Luigi Ciocchetti - 2013

Attraverso le mura del carcere, da detenuto a uomo libero. La storia della scarcerazione di Luca S., stimato professionista condannato per omicidio, vittima di un sistema giudiziario annoiato, indifferente e superficiale.

Luigi Ciocchetti è nato a Siena nel 1964. Vive a Forlì, dove svolge la professione di avvocato. Dopo aver collaborato come cronista con dei quotidiani locali è approdato alla narrativa pubblicando i suoi racconti in varie riviste specializzate.



LEGGI O SCARICA IL RACCONTO

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mercoledì 8 luglio 2015

MAURIZIO LIMARZI - L'ULTIMO LAVORO

Ieri sera, 7 luglio 2015, è andata in onda su Rai 1 la puntata di "Techetecheté" ideata e curata interamente da Maurizio (che è stato anche il produttore esecutivo della trasmissione).
A poco più di un mese dalla sua "partenza" è bello ricordarlo così..... Buona visione a tutti.








Questo, oltretutto, non è l'unico blog che in questi giorni parla di Maurizio. I due link che seguono rimandano al sito di un suo ex compagno di scuola (Enrico Galantini) che in passato ne raccontava le prodezze scolastiche nel post del 2012 "Che fine hai fatto Mammola" e che di recente, una volta appresa la notizia della sua scomparsa, ha voluto ricordarlo nel post "Ciao Mammola".
Mammola, a quanto ne so, era il soprannome di Maurizio ai tempi della scuola.

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domenica 7 giugno 2015

MAURIZIO LIMARZI

25/04/1953 - 04/06/2015


Non mi mancherà, di te, un mio ricordo di bambino: un omone grande e grosso che, con la sua testa piena di capelli, mi mangiava tutti gli avanzi.

Non mi mancherà, il ricordo di te seduto sulla poltrona tutta scalcagnata che è stata di zia Maria.

Non mi mancherà, di te, il ricordo dell'abbraccio che mi hai dato, infagottato in un giubbotto di pelle, nel momento più difficile della mia vita.

Non mi mancherà, di te, il ricordo del tuo sguardo truce che non faceva paura proprio a nessuno.

Non mi mancherà, di te, il ricordo del sorriso che regalavi a mio padre ogni volta che ti trovava nei titoli di coda di una trasmissione televisiva.

Ecco: queste poche cose, di te, non mi mancheranno. Tutto il resto mi mancherà.

BON VOYAGE MORRIS...


SILVIO

venerdì 24 aprile 2015

Domenica 9 Luglio 1950

Quando nonno Silvio morì improvvisamente era una domenica di luglio del 1950. Aveva 74 anni e, forse, il cuore un po' troppo logoro. Io, comunque, preferisco a pensare più semplicemente che la sua ora fosse arrivata. In ogni caso la notizia della sua morte corse veloce per le vie di Meldola e fece molto scalpore: era morto "e' dutor", colui che era riuscito ad allungare la vita di tante persone, ma che quel giorno, non era riuscito a fare nulla per allungare, nemmeno di un minuto, la sua.

La causa del decesso fu, quasi certamente, una dissezione della aorta, evento che anche oggi è quasi sempre letale e che, a maggior ragione, 65 anni fa non poteva lasciare scampo. Eppure il nonno, tentando su sé stesso l'ultima diagnosi della sua vita, chiedeva disperatamente (e inutilmente) una bombola di ossigeno per provare a respirare un altro pò. Non sarebbe servita quella bombola, questo probabilmente lo sapeva anche lui, ma non era mai stato abituato a mollare la presa su di un paziente senza averle provate tutte. Non lo fece nemmeno quel giorno.

Quel suo ultimo grido di aiuto, però, finì inevitabilmente per rimanere impresso nell'immaginario collettivo tanto che, pochi giorni dopo, trovò spazio nelle colonne de "IL PENSIERO ROMAGNOLO" noto periodico della provincia di Forlì. L'autore fu Alessandro Baronio, suo amico e compaesano che allora scriveva per la testata.


(cliccare sul testo per ingrandire)

lunedì 30 marzo 2015

In memoria di Maria Concetta Pia Pompeiano in Limarzi

9 Novembre 1925 - 16 Marzo 2015

Purtroppo in questo mese di marzo è venuta a mancare zia Pia, vedova di zio Nino (Giovanni Limarzi). Da qualche giorno mi stavo chiedendo come ricordarla in questo sito, poi ci ha pensato il settimanale della diocesi di Forlì - Bertinoro "Il Momento" a togliermi le castagne dal fuoco. La rivista ha pubblicato il bellissimo ricordo con il quale la nipote Alice (figlia di Marco Rossi e di Silvia Limarzi) ha voluto ricordarla alla fine del rito funebre.
Impossibile fare di meglio.



(cliccare sull'immagine per una migliore visualizzazione)
 
 
SILVIO LIMARZI
 
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lunedì 9 febbraio 2015

LE ALI... E LE RADICI

LE ALI....
Ottobre 2014 - Laurea di Francesco Limarzi e Stefania Ghinassi
Novenbre 2014 - Laurea di Federica Mallozzi
Febbraio 2015 - Laurea di Annamaria Ghinassi


17/10/2014 - FRANCESCO e STEFANIA
In questi giorni in famiglia sono arrivati due nuovi, splendidi medici.

Francesco Limarzi figlio di Marco ed Elena Morra

Stefania Ghinassi con i fratelli Antonio ed Annamaria e i genitori Paolo e Gabriella Limarzi



.....E LE RADICI

Forse qualcuno da lassù sta sorridendo sotto i baffi...


Silvio Limarzi ufficiale medico nella prima guerra mondiale(foto di Silvio '61)

Proprio questa settimana sono andato all'archivio storico del comune di Meldola a ripescare una vecchia delibera. Non è una delibera qualunque: è l'atto che, nel luglio 1921, ha rappresentato una svolta fondamentale per il destino della nostra famiglia e, quindi, anche di questi due ragazzi.
Dopo un lungo peregrinare per l'Italia nonno Silvio è diventato medico condotto a Meldola. E qui, a 64 anni dalla sua morte, è ancora per alcuni (non più giovanissimi) "é dutòr".


Come si può notare Silvio aveva in realtà incominciato ad operare come medico condotto a Meldola dal 1 aprile 1921 in forza di una delibera di nomina che venne annullata dal prefetto così come altre delibere della medesima seduta del consiglio comunale. Evidentemente era stato riscontrato qualche vizio di forma.

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UNA STORIA MELDOLESE
La nomina di Silvio avvenne all'unanimità dal consiglio comunale di allora presieduto dal sindaco Ferdinando "Nando" De Battisti, noto per essere un uomo mite e di buon senso. Nando, che poi divenne amico di nonno Silvio, faceva il meccanico e riparava un po' di tutto, dalle moto alle macchine per cucire. Sarebbe bello che molti sindaci di adesso avessero lo stesso "background", credo che farebbero molto meglio il proprio mestiere.

Come mi ha fatto notare mio padre mentre scorreva i nomi degli altri 11 consiglieri votanti, allora la cosa pubblica era gestita con grande oculatezza da gente semplice che a volte non sapeva nemmeno leggere e scrivere, ma agiva con scrupolo ed onestà. Fra questi c'era Raimondo Marzocchi socialista della prima ora che si racconta fosse stato in prigione (a causa delle sue idee politiche) con Pietro Nenni e il primo Mussolini. Quest'ultimo, come sappiamo, prese altre vie, mentre il buon Raimondo rimase sulle sue posizioni che, con l'avvento del Fascismo divennero di fatto sovversive. Stiamo ovviamente parlando delle idee, non certamente della persona che non avrebbe fatto del male nemmeno ad una mosca. Eppure ad ogni visita del Duce che si svolgeva anche solo nei dintorni di Meldola, Raimondo veniva, a scopo precauzionale, incarcerato assieme ad altri individui ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico. Ciò accadde per alcune volte sino al giorno in cui Mussolini, incontrando alcuni meldolesi, chiese "Ma dov'è il mio amico Raimondo?". Inutile dire che i suoi interlocutori faticarono non poco a spiegare i motivi della sua assenza ed inutile dire che da allora nessuno si sognò più di andare a rompere le scatole a Raimondo.

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10/11/2014 - FEDERICA
MEDICI E NON SOLO

E non è finita qui. In questo autunno particolarmente prolifico è arrivata anche una nuova dottoressa in famiglia:


Federica Mallozzi con la sorella Francesca e il genitori Alfredo e Ornella Limarzi

Federica si è laureata (con tanto di stampelle) in Lingue e Culture Straniere alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma Tre.
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9/02/2015 - ANNAMARIA
...E ALLA FINE ARRIVA ANNA...

Le corone di alloro si susseguono ed è un po' difficile stare al passo. In questi primi giorni di febbraio è arrivata anche la laurea in LETTERE MODERNE di Annamaria. Da Roma si passa, in una bella giornata di sole, a Milano, precisamente alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università del Sacro Cuore.



Annamaria è, come Stefania, figlia di Paolo Ghinassi e Gabriella Limarzi. Mio padre l'ultima volta che l'ha vista le ha sussurrato in un orecchio: "tu assomigli molto a mia mamma". Si riferiva a nonna Giuseppina, che di Annamaria è la bisnonna.

Giuseppina è nata nel 1891 e certamente non era una donna di lettere come la pronipote. Ma di sicuro aveva una sua cultura, aveva studiato e sapeva scrivere in un italiano bello e fluente. Di questa cosa, affatto scontata per una che aveva vissuto la sua giovinezza all'alba del secolo scorso, me ne sono accorto leggendo una lettera che scrisse di suo pugno in risposta ad una missiva del podestà di Meldola. In essa lo stesso podestà rimproverava a suo marito Silvio di non essersi reso disponibile per una chiamata urgente in sostituzione del dottor Pradella (altro medico condotto di Meldola) che in quel momento a sua volta non era reperibile.
Nonna Giuseppina, per nulla intimorita, non esitò a prendere carta e penna per redigere una elegante per quanto perentoria difesa del consorte:


Illustrissimo signor Podestà,
Leggo la sua missiva diretta a mio marito:
tengo a farle sapere che sin'ora (ore 12 e mezza) 
egli non è ancora tornato da un lungo giro
in parrocchia di Bagnolo (condotta di Pradella)
per cui era impegnato sin da ieri.
Di ritorno dovrà subito recarsi a Ricò 
ed ai Capannini per altre chiamate.
Egli dunque non si è rifiutato per altre ragioni
che il suo impegno professionale.

Con scuse ed ossequi devotissima

Giuseppina Limarzi

da casa 26 - 2 - 930

Al podestà non rimase che appuntare di suo pugno sulla lettera di nonna Giuseppina: "Ricevuto ampie giustificazioni.....". Episodio chiuso.

Un abbraccio a tutti i neo laureati!


SILVIO LIMARZI


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