“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia.”

da OGNI COSA E' ILLUMINATA - Jonathan Safran Foer

lunedì 10 settembre 2012

PASQUALE LI MARZI - Il nonno di Francesco

MARZI 1769 - COSENZA 1807

Pasquale Li Marzi a Marzi faceva il calzolaio. Lì si era sposato con Caterina che di cognome faceva Tucci. Non so esattamente quanti figli avessero, ma di sicuro il 19 giugno 1807 giorno in cui lui morì a Cosenza a casa scorazzavano almeno due bambinetti: Domenico di cinque anni e Raffaele che avrebbe compiuto i suoi primi due anni di lì ad un paio di mesi. Chissà se il piccolo  Raffaele, che sarebbe diventato il mio trisnonno, nella sua vita ha avuto memoria di quel padre che armeggiava con cuoio e pellami nella sua bottega. Marzi del resto era molto nota per l'abilità dei suoi artigiani: conciatori e lavoratori della pelle, calzolai, scalpellini e intagliatori le cui opere si conservano ancora oggi nelle chiese e nei palazzi del centro storico.  Ma, soprattutto, chissà cosa ha pensato quando, crescendo, ha avuto l'età per capire come è morto suo padre.

Perché questa non è la consueta triste storia di genitori o di figli che muoiono troppo presto "perchè un tempo era normale così". Pasquale morì  a 38 anni, decisamente troppo presto è vero, ma di una morte che non era normale, in un posto che non era il suo, lontano da tutti quelli che gli volevano bene. Lontano da tutti meno che uno: al suo fianco c’era suo fratello Stefano di appena due anni più grande. Morirono entrambi perché si erano ribellati ed è per questo che li hanno giustiziati.

A un certo punto, infatti, nelle loro terre e nella loro vita erano calati dei nuovi occupanti che avevano rotto ogni equilibrio utilizzando ogni mezzo e ogni forma di violenza per impadronirsi del territorio: i francesi.
Non che prima con i Borboni la vita fosse un granché, per carità! Anche quella era pur sempre una dominazione, ma perlomeno si era riusciti a raggiungerlo quell'equilibrio che, sia pure precario e del tutto relativo, rendeva non così opprimente e pesante la loro presenza. Ora invece c'erano questi nuovi stranieri che erano arrivati, trattando tutti da bifolchi e sottosviluppati, con la volontà di imporre i propri sistemi e le proprie leggi senza fare leva sulla loro bontà e utilità (che pure in qualche caso non mancava), ma semplicemente applicandole con la forza. Il tutto senza nemmeno che le popolazioni comprendessero la loro lingua.

Quel Napoleone, che stava conquistando l'intera Europa, aveva spedito il fratello (Giuseppe Napoleone) a sbrigare la pratica del sud Italia nominandolo re di Napoli e di Sicilia. Ma, soprattutto in Calabria, aveva un po’ sbagliato i suoi conti. Ovunque c'erano focolai di rivolta, e forse il termine "focolaio" è riduttivo. Città intere si ribellavano e le truppe francesi erano costantemente impegnate in durissime battaglie con continui capovolgimenti di fronte. Alla fine i francesi ne risultarono vittoriosi, ma non si poterono mai dire completamente padroni della regione. Nel gennaio 1807 posero sotto assedio Amantea incontrando una durissima resistenza e pagando a carissimo prezzo l'entrata nella città.
Nei successivi mesi del 1807 l'esercito francese riesci a domare in qualche modo le numerosissime insurrezioni e rivolte dei “briganti” calabresi, ma non raggiunsero mai, di fatto, il pieno controllo del territorio.

Anche a Marzi e nella vicina Rogliano quel vento di rivolta era passato e fra i promotori c'erano il nostro Pasquale e il nostro Stefano. Detto per inciso, se da un lato Pasquale faceva il calzolaio, dall'altro non è che di suo nemmeno Stefano alle spalle avesse propriamente il curriculum del rivoluzionario, visto che era un semplice mulattiere. Eppure nel luglio 1806 decisero di prendere le armi e assieme cercarono di organizzare l'insurrezione per contrastare quel nemico calato da chissà dove. Ma non funzionò. La rivolta venne soffocata nel sangue, Marzi venne inserito fra i paesi “sedati” e, circa un anno dopo, il destino presentò il conto ai due. Inizialmente non sapevo che rapporto c’era fra di loro (nulla risulta dagli atti del procedimento), ma so che il 18 giugno 1807 si trovavano a Cosenza , al palazzo dell’Intendenza “liberi e senza ferri, accompagnati dal loro Avvocato Ufficioso” ad affrontare un processo sommario che sapevano già come sarebbe andato a finire. La commissione militare che doveva giudicarli li interrogò sulle loro generalità e

“Dopo di aver palesato a’ pervenuti i fatti a suo carico, di avergli interrogati per l’organo del Presidente e, di aver inteso separatamente li testimoni a’ carico, li quali sono stati pubblicamente confrontati; Udito il relatore nel suo rapporto, e conclusioni, e gli occupati ne’ mezzi di difesa tanto da loro medesimi, che dal loro Avvocato Ufficioso, ed avendo gli uni, e li altro di non avere altra cosa da aggiungere; il presidente ha domandato a’ membri se avessero delle osservazioni da fare, e sulle loro risposte negative ha ordinato agli occupati, ed all’Avvocato di ritirarsi; quelli sono stati ricondotti per scorta nella Prigione….”

La Commissione Militare deliberando a porte chiuse ha proposto la quistione seguente:
Li denominati Stefano Li Marzi e Pasquale Li Marzi, accusati come di sopra, sono eglino colpevoli?
Le voci raccolte, cominciando dal grado inferiore, il Presidente avendo posto la sua opinione ultima, la Commissione dichiara all’unanimità che sono colpevoli.

…condanna all’unanimità li denominati Stefano Li Marzi e Pasquale Li Marzi alla pena di morte… Incarica al Capitano Relatore di leggere questa sentenza a’ condannati in presenza della Guardia riunita sotto le armi, di farla eseguire tra 24 ore….”


LA SENTENZA







Pasquale e Stefano morirono, decisamente troppo presto, vittime di quell’ennesimo popolo straniero che aveva deciso che la Calabria era cosa sua e non di chi ci viveva. Vennero impiccati, il giorno stesso o più presumibilmente il giorno dopo, il 19 di giugno del 1807 nella stessa Cosenza in quella che prese (non a caso) il nome di Via delle Forche Vecchie. Spero almeno che abbiano avuto il tempo di salutarsi per l’ultima volta.
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VIA DELLE FORCHE VECCHIE
(Attualmente tratto iniziale di via XXIV Maggio) La zona fu per anni luogo di esecuzione, per impiccagione (forca) e per fucilazione, di briganti e banditi. Durante l'occupazione francese, dal 20 agosto del 1806, quotidianamente, da nove a dieci condannati vi vennero impiccati o fucilati. Allorché, nel 1821, ritornati i Borboni, si volle mutare il luogo delle esecuzioni, il Decurionato cittadino protestò presso il Procuratore Generale della Gran Corte Criminale di Calabria Citra per aver interrotto la consuetudine. Inutilmente: le forche diventarono... vecchie.
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Sulla morte di Pasquale c'è un documento che ci racconta tante cose:

"...morì sospeso nel patibolo innanzi al Convento dei Conventuali,
ed il cadavere di lui fu sepolto dentro la chiesa dello stesso
monistero, sotto il titolo delle Grazie...."

Si tratta di un certificato reso, nel 1823, dal Parroco della Chiesa della Sanità di Cosenza contenente la trascrizione dell'atto di morte di Pasquale. Il tutto in occasione del matrimonio a Cropalati del suo primogenito Domenico che, trovandosi per ovvi motivi impossibilitato ad avere il consenso del padre alle nozze (cosa assolutamente obbligatoria per l'epoca), ha dovuto dimostrarne il decesso.
Domenico Limarzi, per la cronaca, morì a Cropalati (sua nuova terra d'adozione) come "custode delle carceri": non male per il figlio di un brigante.....

La salma di Pasquale, quindi, venne per carità cristiana raccolta dai monaci dell'adiacente convento e, certamente seguendo il destino di tanti altri giustiziati, sepolta nella loro chiesa.

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MONASTERO DEI CARMELITANI
Nei pressi della vecchia Stazione ferroviaria, edificata su un precedente Monastero dei Carmelitani, la Chiesa dedicata alla Madonna del Carmelo affianca l'ex Convento dei Carmelitani in piazza XX Settembre. L'Ordine dei Padri Carmelitani dell'Antica Osservanza giunse a Cosenza sotto l'Arcivescovo Fantino Petrignano.. Durante il presulato dell'Arcivescovo Alfonso Castiglion Morelli (1643-1649), per beneficienza di Lelio Donato, essi fondarono la loro Chiesa, annessa al Monastero. 
Il Monastero venne soppresso nel 1783 e l'Ordine abbandonò Cosenza, rientrandovi nel 1796. Dopo la definitiva soppressione, avvenuta nel 1809, il Monastero venne adibito a sede della Guardia Provinciale. Nel 1814 la Chiesa fu concessa all'Ospedale Civile dell'Annunziata, in quel tempo sito in via Rivocati; nel 1825 la censualità della Chiesa venne concessa, in cambio di un canone annuo, al Comune di Cosenza. Nel 1855 il Monastero fu ceduto dal Comune al Consiglio Generale degli Ospizi, perchè venisse adibito ad ospizio di trovatelli. Dopo il 1860 fu adattato ad ufficio militare e in seguito a sede del Comando dei Carabinieri. Attualmente è sede della Caserma dell'Arma intitolata a Paolo Grippo .

Negli anni immediatamente successivi ai fatti il monastero venne soppresso e tutti i registri vennero trasferiti alla Chiesa della Sanità. Questo spiega la provenienza del manoscritto
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Ai giorni nostri il monastero ha preso quindi ben altre destinazioni, mentre la chiesa è ancora aperta al culto sia pure pesantemente restaurata e "modernizzata". Impossibile trovare alcuna traccia della salma del nostro antenato che però di sicuro giace ancora lì, "sotto il titolo delle grazie" probabilmente assieme a quella di tanti compagni di sventura e sicuramente al  fianco di quella del fratello Stefano.
Che Pasquale e Stefano fossero fratelli non era peraltro scontato, visto che non si desume da alcun atto processuale. Ma di questo ho trovato conferma dalla trascrizione di un manoscritto marzese contenuto nella biografia di un notabile del luogo (Giovabattista de Gattis). In questo manoscritto si parla con amarezza di tanti “onesti cittadini” di Marzi condotti al patibolo a seguito di delazioni fatte ad opera di un compaesano senza scrupoli, Domenico Tano, allo scopo di aumentare ulteriormente la propria influenza sul paese. Influenza che, sempre secondo il manoscritto, gli derivava da una certa connivenza con gli occupanti francesi. Era proprio grazie a questi suoi torbidi rapporti con i potenti di turno che Domenico Tano si era progressivamente ritagliato una posizione di potere nella propria terra.
Ma il contenuto del manoscritto si spiega da sé:

“Se si vorrebbe oggi giudiziariamente dimostrare, si troverebbe che  Pasquale e Stefano Li Marzi fratelli germani, Fortunato Garofalo, Matteo Mannella, Stefano e Giuseppe Costanzo, Pasquale Tucci, Domenico Tucci, Domenico Filosa, Vincenzo Scaglione di Vercillo, i fratelli Costanzo alias ‘Pitazzo’ e tanti altri della Comune di Marzi ….(omissis – seguono altri nomi di cittadini di altri paesi limitrofi) …che formavano la miglior gente del Paese e Circondario vennero menati alle forche come briganti e defensori del nostro Augusto Sovrano.
Per cui ne restò gemente, oltre agli altri paesi del Circondario, la nostra Comune di Marzi.
I beni di coloro, immediatamente sequestrati, si percepivano dal Tano, senza darne conto a chicchessia, e le vedove,  ed i pupilli dei disgraziati andavano mendicando per la Patria.
Verità notorie che la Comune de’ Marzi offre di provare a sue spese; oltre a ciò, qualsiasi persona che ne sarà domandata, non sarà che per affermarlo, essendo noto a tutti.”

Il manoscritto è redatto tra il 1829 e il 1830 quando al potere erano già da tempo ritornati i Borboni.
Pochi giorni dopo l’esecuzione di Pasquale e Stefano infatti, il 15 luglio 1807 Gioacchino Murat viene nominato re di Napoli al posto di Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Spagna. Ma non sarebbe durata a lungo. Ben presto sorse in Calabria la Carboneria, la società segreta di insurrezione che presto si diffonderà in tutta Italia ed in Europa che di fatto finì per agevolare il ritorno dei Borboni stessi. Il 7 giugno 1815 Re Ferdinando di Borbone rientra in Napoli e si proclama re delle Due Sicilie col nome di Ferdinando IV di Napoli e, il 13 ottobre 1815 a Pizzo, Murat venne fucilato.

Questa testimonianza storica così diretta ha il merito di ricordarci che per la famiglia di un condannato a morte la sofferenza per una così tragica e terribile perdita di un congiunto non era abbastanza. C’era da mettere in conto anche l’emarginazione sociale e la perdita economica di tutti i beni.
Ma la famiglia di Pasquale seppe uscire da questa difficile condizione. Sia Domenico che Raffaele, pur senza il padre crebbero e misero su famiglia.  
Raffaele arrivò anche ad essere prima decurione e poi, sia pur solo per qualche mese, sindaco supplente di Marzi. Di certo non poté fare a meno di provare una profonda inquietudine quando il suo giovane figlio Francesco si ritrovò, appena mezzo secolo dopo, nella stessa situazione di quel padre che aveva potuto abbracciare solo per poco. Garibaldi stava arrivando e anche Francesco aveva davanti a sé, esattamente come suo nonno, le classiche due scelte: una facile ed una difficile. Seguendo quella facile se ne sarebbe lavato le mani o addirittura, come Domenico Tano, avrebbe aspettato di vedere da che parte tirava il vento per poi cercare di sfruttare e compiacere il potente di turno per il proprio tornaconto personale.
Ma ce n'era anche un'altra, quella più difficile: tentare cioè di costruire un mondo migliore. E Francesco come Pasquale lo voleva un mondo migliore, lo voleva per sé e per i propri figli e  non esitò anche lui a prendere le armi per provare a costruirlo. Il momento di liberarsi anche dei Borboni era arrivato, in nome di un’Italia unita e, soprattutto, più libera.
Meno male che, stavolta, l’epilogo fu diverso dal precedente.


La storia certamente si sarebbe compiuta anche senza il sacrificio di Pasquale e Stefano o il coraggio di Francesco, ma a me piace pensare che un pur piccolo, minuscolo  mattone di quel mondo libero nel quale, solo per fortuna e senza alcun merito, mi sono trovato a vivere, ce l’hanno messo Pasquale e Stefano con il loro sangue e Francesco con il suo ardore.



SILVIO LIMARZI