“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia.”

da OGNI COSA E' ILLUMINATA - Jonathan Safran Foer

mercoledì 24 dicembre 2014

VITA DA MEDICO

UN RACCONTO IMMAGINATO, MA NON IMMAGINARIO

Il 19 marzo del 1928 era un bel giovedì di festa a Meldola. Di prima mattina, in paese erano in tanti che,  già in piedi, stavano tirando fuori il vestito buono dall'armadio mentre il fuoco cominciava a scaldare il brodo: serviva per i cappelletti che facevano bella mostra di sé, nessuno uguale all'altro, tutti ordinatamente distesi sul tavolo della cucina. Il vestito buono delle mogli, adagiato sul letto, era in ancora in attesa di essere indossato perché non si poteva rischiare di sporcarlo con le faccende domestiche; per gli uomini, immuni da questo rischio, era di rigore un bell'abito scuro mentre per i bimbi invece era già tempo di pantaloni corti (ammesso che, cosa affatto scontata, ne avessero mai posseduti di lunghi).
Piano piano tutti sarebbero scesi in piazza e "nel borgo" (come ancora gli anziani chiamano il centro del paese) per andare a messa o, più semplicemente per fare un giro.
Era il giorno di San Giuseppe, santo al quale il paese ha sempre dedicato una devozione assoluta sia sul piano religioso che su quello secolare: alle pompose cerimonie nelle chiese gremite, infatti, si affiancava una splendida e frequentatissima fiera che attirava gente da tutti i paesi vicini.


Meldola - Via Cavour in un giorno di festa - Anno 1926
(Fonte: Archivio Ruggero Milandri)

Il cuore della fiera in verità non era propriamente in centro ma nella leggermente defilata chiesa di San Francesco dove tuttora viene venerato il Santo. Proprio al fianco della chiesa, nel luogo dove ora sorge il teatro parrocchiale, c'era un grande prato dove tutti si dirigevano per andare ad acquistare un dolciume in una delle tante bancarelle che lo occupavano. Qui si potevano trovare anche i "brazadel" (degli anelli di pasta simile al pane e dalla consistenza croccante) che vendevano venduti in "corone" simili a grosse catene che i ragazzi si mettevano attorno al collo.

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I BRAZADEL - Antica ricetta romagnola
"Si impasti, in acqua e sale, della buona farina bianca; si impasti bene e si ripeta fino ad ottenere un composto sodo come i fianchi di una giovane sposa.
Staccati dei tocchetti di 80-100 grammi, si ricavino dei bigoli della grossezza di un dito, lunghi a sufficienza per farne un bel cerchietto. Si lascino asciugare almeno 10-15 minuti - meglio se più - perché, in superficie, si crei una sottile crosta. Si immergano poi, per non più di 3-4 minuti, in un ampio paiolo dove sobbolle (ma molto lentamente) dell'acqua dolce. I bracciatelli verranno da soli a galla a dirci subito di passare - sempre per 3-4 minuti in un mastello di acqua fredda.
Poi li accoglierà, fino a cottura, un forno riscaldato a legna, dal quale verranno levati con la panera, una specie di largo badile di legno dalla pala assotigliata in cima"
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Sempre a San Francesco ci si preparava alla festa liturgica con una novena che incominciava, appunto, nove sere prima e che veniva definita da tutti (molto poco liturgicamente) "la nuvena di murus" (la novena dei fidanzati). Ciò era dovuto al fatto che molti ragazzi vi partecipavano non propriamente spinti dalla devozione religiosa, ma piuttosto dal desiderio di incontrare qualche coetaneo dell'altro sesso da corteggiare o, più semplicemente, nella speranza di esserne corteggiati. Si trattava di un piccolo espediente per infrangere quei rigidi steccati che venivano eretti fra il genere maschile e quello femminile dalla società di allora: a scuola si frequentavano classi rigorosamente separate, all'oratorio si giocava in luoghi diversi e momenti diversi e le famiglie stesse non brillavano per elasticità.
Per questo motivo, dopo un lungo inverno passato a chiudersi in casa appena scendeva il sole, potere finalmente uscire alla sera era davvero un'occasione imperdibile. E grandi erano le acrobazie per sfruttarla al meglio nel tentativo di smarcarsi dai genitori. Bastava anche solo incrociare uno sguardo, ottenere un sorriso o un cenno di saluto per ritornare a casa felici in attesa della sera successiva. E i risultati furono ottimi devo dire, visto che molti meldolesi ancora oggi viventi sono anche un po' figli di quella novena.

A questa atmosfera, quella mattina, non poteva sfuggire di certo casa Limarzi, la casa di mio nonno Silvio. Lì, probabilmente, i cappelletti quel giorno li aveva fatti Clara. Clara (che oggi avremmo definito come "la governante") era una romagnola doc e i cappelletti li sapeva fare bene: Silvio la conobbe quando era medico condotto a Civitella e se la portò a Meldola quando vi si trasferì, seguendo i destini dalla sua professione.
Nonna Giuseppina, sua moglie, i cappelletti penso proprio che non li sapesse fare: lei, che negli occhi aveva ed ha sempre conservato il mare della sua Castellammare di Stabia, la Romagna e le sue usanze le aveva incontrate da appena da una decina di anni. Magari, questo sì, aveva preparato  una delle sue famose salse per l'arrosto che ancora oggi, tramandate a mia madre, campeggiano sulla nostra tavola nelle feste comandate.
Sinceramente non credo che avesse potuto fare tanto di più, assorbita com'era dalle cure del piccolissimo Franco (Francesco) nato da appena 5 mesi che reclamava costantemente le attenzioni della mamma e le rendeva le notti sin troppo brevi.
Poi, come se non bastasse, c'erano Vittorio ed Eugenio, 9 e 7 anni, che giocavano, si amavano e si azzuffavano come solo i fratelli di quell'età sanno fare. Di sicuro, di qualsiasi cosa si trattasse, non volevano fra i piedi il troppo piccolo Nino (Giovanni) che il giorno successivo avrebbe compiuto appena 3 anni e che, al contrario, non desiderava altro che stare con i fratelli più grandi.
Nino era quello biondo. Davvero si notava in mezzo a tutti gli altri dai capelli corvini e con lo stampo dei Limarzi nella faccia. Appena nato, quando nonna Giuseppina potè averlo fra le braccia lo guardò e capi che stavolta quel piccoletto, finalmente, assomigliava a lei. E subito pensò: "questa volta il nome lo scelgo io". E fu così lo battezzò chiamandolo come il suo caro fratello Giovannino che aveva lasciato a Castellammare.
Mio padre Umberto, l'ultimo nato di casa Limarzi, ancora non c'era: sarebbe arrivato dopo 5 anni, nel 1933.

C'era invece Maria, l'unica femmina che, nel fiore dei suoi quindici anni, non vedeva l'ora di sfuggire a tutta quella confusione e di potersene andare con le amiche in giro per le vie del paese a fare il gioco del"fioraverd" che anch'esso caratteristico di quei giorni. Guai ad uscire e farsi cogliere di sorpresa davanti a chi, magari appena sbucato da dietro una colonna del loggiato, ti gridava: "fioraverd!"

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LA GARA DEL "FIORAVERD"
da "Storia di Meldola" di Fabio Lombardi - Società editrice "Il Ponte Vecchio" - Anno 2000
"Nei giorni precedenti la festa di San Giuseppe, tra i bambini si faceva la gara del "fioraverd" consistente nel conservare un pezzettino di legno di bosso da mostrare ogni volta che l'altro concorrente ne faceva richiesta e perdeva chi veniva trovato senza. La penitenza consisteva nel pagare pegno il giorno della festa. Il pegno consisteva in una quantità pattuita di caramelle, dolciumi o frutta secca, che il perdente doveva offrire all'altro giocatore."
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In quella casa nonno Silvio, in mezzo a quel vociare di bimbi ci stava perfettamente. Rispondeva alle domande di tutti, quando era necessario li richiamava all'ordine e li osservava in tutte quelle loro occupazioni così diverse le une dalle altre. Ma era proprio in quei momenti che probabilmente sentiva di più riaprirsi una ferita ancora troppo fresca. Qualcuno infatti mancava all'appello e, purtroppo, sarebbe mancato per sempre:

Telegramma del 19/08/1927 - Provenienza: TARANTO - Destinazione: MELDOLA
"Pregasi informare con dovute cautele famiglia allievo Sergente Pilota Limarzi Francesco..... è deceduto ore 8,30 causa incidente aviatorio"
Firmato: Comandante Aviazione Fedeli
(Fonte: Archivio Storico Comune di Meldola)

Il piccolo Francesco che stava in braccio a sua moglie Giuseppina, infatti, aveva ereditato il nome dal fratello maggiore che, pilota della nascente Aeronautica Militare  era tragicamente deceduto, appena pochi mesi prima, nel mare di Taranto in un volo di esercitazione con un idrovolante.


Francesco Limarzi (1908 - 1927) e il suo aereo
(Fonte: Marco Limarzi)

A Meldola il ricordo di quell'accadimento era ancora fresco: al primogenito di nonno Silvio vennero tributati dei solenni funerali e venne allestita una camera ardente in comune a Meldola. Il suo nome venne scolpito nel Lapidario dei Caduti che si trova ancora ora ad uno degli ingressi del Ministero dell'Aeronautica a Roma.

MINISTERO DELL'AERONAUTICA - ROMA - Scorcio del Lapidario dei Caduti contenente il nome di Francesco Limarzi
(Fonte: Ministero Aeronautica)

Certi dolori, del resto, riaffiorano sempre nei giorni di festa.
Silvio, forse, scacciò questi pensieri mentre si aggiustava la cravatta scura davanti allo specchio, magari ripensando a quali ammalati che era il caso di andare a visitare in mattinata in modo da avere tempo di pranzare in tranquillità in famiglia. Perché i malati non fanno mai festa e ancor meno la facevano nel 1928. A quei tempi non era necessario avere contratto chissà quali malattie per rischiare delle complicanze anche gravi: a volta era sufficiente una influenza curata male per andarsene al Creatore. E, assieme agli ammalati, nemmeno i medici condotti abbandonavano il loro posto. C'era sempre qualcuno da andare a visitare, magari per il quarto o quinto giorno consecutivo e comunque fino a quando la febbre non se fosse andata via, la ferita non fosse sufficientemente rimarginata o una brutta tosse fosse sparita. La sua vita, come quella di tutti i medici condotti, era questa, ma l'accettava di buon grado anche perché, in fondo, era quella che si era scelto. E poi perché lamentarsi? Quel giorno era San Giuseppe, i suoi piccoli erano a casa, Clara aveva fatto i cappelletti e, dal terrazzo che si affacciava sulla piazza, entrava un raggio di sole e arrivava il vociare allegro della fiera.

Piano piano, di lì a breve, con l'affluire della gente proveniente dalle campagne, quel vociare sarebbe diventato quasi chiasso. Anche tutti quelli che vivevano nelle frazioni, infatti, non sarebbero mancati all'appuntamento.

Domenico Fabbri, ad esempio, la sera prima ci aveva fatto un pensiero a scendere in paese dalla sua Valdinoce. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero: quella mattina infatti il buon Domenico, invece che tirar fuori il vestito buono fu costretto a precipitarsi all'ufficio postale di Teodorano per inviare la sua richiesta di aiuto. Ai tempi, del resto, non c'erano telefoni, le auto si contavano sulla punta delle dita e quello era l'unico sistema per comunicare velocemente con quella Meldola che pure oggi appare così vicina.
Suo padre Sante stava male, molto male e c'era assolutamente bisogno di un medico. Lo avrebbe aspettato al "botteghino vecchio" (l'unico esercizio pubblico funzionante a Valdinoce) per poi accompagnarlo nella sua casa sperduta chissà dove.

"Urgemi subito dottore botteghino vecchio Valdinoce da Fabbri Sante ammalato grave"
(Fonte: Archivio Storico del Comune di Meldola)


Il telegramma arrivò all'ufficio postale di Meldola che, ovviamente, era anch'esso in Piazza Orsini come dovevano essere tutte le cose che servivano:  il comune, il medico, le poste e i telegrafi, la caserma, il bar, l'osteria, il barbiere, il sarto, il generi alimentari. Uno poteva passarci tutta la vita in piazza senza che gli fosse mai venuto a mancare nulla.
Un impiegato lo trascrisse velocemente, lo ripiegò e lo affidò ad un postino perché  la attraversasse in tutta fretta per raggiungere il palazzo comunale e lo affidasse al podestà o ad un suo incaricato. Gli bastarono solo pochi passi, ma ancora meno furono quelli che dovette fare il messo comunale per andare a cercare un medico: la casa del dottor Limarzi, uno dei tre medici condotti del paese, era giusto davanti al comune, al numero uno di via Alighieri  (la prima casa dell'attuale via Roma).

Meldola in una foto d'epoca che inquadra l'inizio di via Roma (allora via Dante Alighieri)
Sulla sinistra il comune sulla destra in alto, sopra il loggiato, il terrazzo di casa Limarzi
(Fonte: Archivio Ruggero Milandri)

Il bussare alla porta e la voce concitata del messo deve avere per un attimo fermato il trambusto di casa. Ma forse neanche troppo: ai tempi non è che ci fosse il 118 e a casa erano un po' tutti abituati all'arrivo trafelato di gente in cerca di un medico.
Il pensiero principale dei piccoli fu, probabilmente, che il babbo rischiava ancora una volta di fare tardi a pranzo, ma niente più. Per loro era normale sentire risuonare il suono del batacchio che magari li svegliava nel cuore della notte e, mentre già si riaddormentavano, udire i passi del babbo che, con gli occhi ancora chiusi, dava un bacio alla mamma, afferrava a sua borsa con i ferri del mestiere e andava a scoprire cosa lo aspettava: un bambino che nasceva, un anziano che stava per morire, un ragazzo che si era ferito.

Quel giorno il babbo lesse il telegramma e, come voleva prassi, vi scrisse in calce "parto subito per Valdinoce", lo controfirmò velocemente (come testimonia la sua grafia frettolosa) e prese la sua borsa. Scese e cercò un auto di piazza che lo portasse fin lassù.

Cosa accadde poi non lo so. Non so se nonno Silvio sia ritornato in tempo per mangiare i cappelletti di Clara e gustarsi la salsa di nonna Giuseppina. Non so se prima di mettersi a tavola abbia potuto dare un buffetto a Nino e Franco o rimproverare Eugenio e Vittorio che si litigavano una pietanza; non so nemmeno se abbia potuto accarezzare i lunghi capelli neri di Maria.
Perché alla fine io, di quel 19 marzo 1928, anche se l'ho raccontato, non so nulla.

Però ho ascoltato un sacco di piccoli racconti sul mio paese e sulla mia famiglia che quei vecchi telegrammi ritrovati all'Archivio Storico di Meldola hanno unito nella sottile trama di questa piccola storia che, anche se è raccontata male, di sicuro non è troppo distante dalla realtà.

Ma c'è una cosa che so per certo: Sante Fabbri quel giorno se l'è vista brutta, ma sopravvisse: lo testimoniano i telegrammi dei giorni successivi che, di nuovo, davano appuntamento a nonno Silvio al botteghino vecchio di Valdinoce per una nuova visita all'ammalato.
E fu di nuovo rumore di batacchi e di ferri riposti in una borsa di pelle scura.


SILVIO LIMARZI


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giovedì 13 novembre 2014

CONFLUENZE: una rivista calabrese

Un paio di anni fa a Marzi degli amici calabresi mi hanno chiesto: "perché non ci scrivi qualcosa che parli della tua esperienza in questo tuo viaggio verso la scoperta delle radici? Magari lo pubblichiamo sulla nostra rivista...". Ed io, incoscientemente l'ho fatto.

La rivista si chiama Confluenze ed è un piccolo miracolo di una piccola casa editrice che si chiama COMET EDITOR PRESS.












Qui sotto, tramite il sito della casa editrice, c'è la possibilità di sfogliare gratuitamente i vecchi numeri, di acquistare quelli nuovi o di abbonarsi.
Consiglio comunque di consultare l'intero catalogo delle pubblicazioni:

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