Marzi 228 anni fa. Anno 1787,
24 marzo.
Dietro la scrivania il notaio
Michele Zumpano più che scrivere stava compiendo quello che chiunque oggi
considererebbe un miracolo di pazienza. Intingere con parsimonia il pennino
nell’inchiostro per poi appoggiarsi e scrivere con calma e in bella grafia fino a
riempire otto ruvidi fogli di carta spessa. Attento a non fare macchie, a non
calcare troppo o troppo poco, a non commettere errori di grammatica, di
ortografia e, nel frattempo, costruire un atto che stesse in piedi sotto il
profilo logico e giuridico. Ma, 228 anni fa, di tempo e di
pazienza ce n’era in giro un sacco.
Davanti a lui, o meglio dall’altra
parte della scrivania, c’era una intera famiglia. O quasi.
Li immagino tutti vestiti
tutti bene per l’occasione (che allora voleva dire mettersi il meno logoro dei
due o tre abiti in loro possesso): c’era una madre, Caterina Tucci, che aveva passato più tempo da vedova che da
sposata. Erano infatti trascorsi 15 anni da quando suo marito Vincenzo Li Marzi, a soli 33 anni,
aveva “reso l’anima a Dio”. Non riesco a pensare ad un definizione migliore della
morte. Un tempo la usavano i parroci per redigere i certificati di morte ed è
questa la formula utilizzata, quando Vincenzo se ne andò nel 1772, anche dal parroco della chiesa di Santa Barbara
a Marzi:
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Documento prodotto dal nipote Raffaele Limarzi in occasione del suo matrimonio
(Marzi 1828) |
C'erano poi due dei tre figli che Vincenzo e Caterina fecero in tempo a mettere al mondo: Antonio, il loro primogenito, nato fra il 1760 e il 1763 e Pasquale, il più piccolo, nato nel 1769. Mancava invece il mediano, Stefano, che impossibilitato a
presenziare aveva provveduto, tramite procura scritta, a farsi rappresentare
nell’occasione dal sacerdote Fedele
Tucci. La scelta, del resto, non fu affatto casuale: don Fedele oltre ad
essere un religioso (all’epoca una delle fidate figure alle quali ci si rivolgeva per
questo genere di delicati incarichi), era anche il fratello minore di Caterina
e quindi zio di colui che rappresentava.
Non sapremo mai cosa indusse Stefano quel giorno a mancare un appuntamento tanto importante. Viene da
pensare che fosse malato, forse anche gravemente, oppure che fosse, in quel
periodo, lontano da Marzi. Di sicuro si trattava di qualcosa che non li colse di sorpresa. La procura, fatto strano, era stata infatti redatta
diversi mesi prima dell’atto, nell’ottobre del 1786 chiudendosi con la firma e la frase di rito scritta di proprio pugno dal ragazzo:
Stefano quindi sapeva scrivere come del resto, lo so per certo, anche Pasquale. E lo stesso valeva quasi sicuramente (anche se non ne ho riscontro) per Antonio.
A quei tempi, infatti, il primogenito era sempre il privilegiato, istruzione compresa.
Impensabile che ciò che era toccato ai suoi fratelli minori non fosse toccato a
lui.
Saper leggere e scrivere, all’epoca, non
era certamente la regola, bensì un’eccezione ed una prerogativa che si ritrovava in pochi appartenenti ad una ristretta cerchia di famiglie. Il fatto che, al contrario, Vincenzo fosse riuscito a garantire
l’istruzione a tutti i suoi figli forse a qualcuno può sembrare un dettaglio
secondario, ma non lo è. In realtà ci rivela come egli possedesse entrambi i requisiti fondamentali per poterlo fare: una grande lungimiranza e dei buoni mezzi economici.
La lungimiranza risiedeva
nell’aver capito che la chiave per provare ad assicurare ai propri figli un futuro migliore
stava nell’istruzione; i buoni mezzi economici, in tutta evidenza, rappresentavano la condizione
indispensabile per tradurre ogni buona intenzione in fatti concreti.
Senza dubbio, a mettere assieme le due cose, lo aveva aiutato non poco suo padre Nicolò che a sua volta lo aveva spedito a scuola da ragazzo (erano
solo in 22 che ci andavano in una Marzi che sfiorava i 1.000 abitanti) e che da semplice mulattiere (un mestiere umile ma redditizio), grazie al suo lavoro e ad un certo fiuto per gli
affari, era riuscito ad accumulare un discreto patrimonio.
Al resto contribuì Caterina che, appartenendo anche lei ad una famiglia che stava discretamente bene, portò una buona dote a Vincenzo . Anche in questo caso niente
sfarzo, per carità, ma suo padre
Luc’Antonio possedeva in società con suo fratello Domenico un mulino alla "fiumara da''Ara" che dava il suo buon reddito il che gli permise di accasare la figlia con quel buon partito che era Vincenzo.
So bene che facendo certi ragionamenti non si dà il giusto spazio al romanticismo, ma sarebbe ingenuo non pensare che, oltre che dell'amore, il loro sia stato un matrimonio figlio degli usi e dei costumi del tempo che imponevano
alle coppie di formarsi quasi esclusivamente fra individui del medesimo ceto
sociale. A questo proposito non può essere una coincidenza il fatto che i rispettivi
genitori (Nicolò e Luc'Antonio) fossero, se non amici, di sicuro ottimi conoscenti: di qui fino ad arrivare ad ipotizzare che fra i due sia intervenuta una sorta di “contrattazione” il passo è breve.
Insomma, alla fine Vincenzo certamente per meriti suoi, ma agevolato dall'eredità paterna e dai beni di Caterina, stava piuttosto bene economicamente: una vigna, un castagneto, due chiuse (piccoli appezzamenti di terreno recintato), un orto, un paio di
case ed una certa disponibilità di denaro. Addirittura si trova traccia di un suo prestito di una considerevole somma a Francesco Golia, cosa che oggi lo farebbe scambiare per un usuraio, ma che ai tempi rappresentava una prassi consueta.
Trecento ducati ceduti, al tasso (tutt'altro che esoso) del 5%, in una sorta di finanziamento perpetuo. Golia in pratica poteva tenere la somma sin quando voleva purché pagasse al suo finanziatore la somma di 15 ducati annui (il 5% di 300 appunto) come interesse. In caso di sua morte il debito sarebbe passato ai suoi figli, viceversa, nel caso in cui fosse morto per primo Vincenzo, il credito sarebbe andato a beneficio dei suoi eredi. In
qualsiasi momento era possibile estinguere (affrancare) il debito, con la restituzione dei 300
ducati e la transazione si sarebbe definitivamente chiusa così.
Non se li è goduti molto
quegli interessi Vincenzo. Antonio era adolescente, mentre Stefano e Pasquale
erano ancora dei bimbi quando il padre mori e lasciò loro quel credito, la casa, le chiuse, la vigna e tutto il resto.
Per i successivi 15 anni quell'intero patrimonio sarebbe rimasto esattamente così, come l'avevano ricevuto: integro ed indiviso. Tutti questi anni i tre li trascorsero, crescendo sotto lo sguardo vigile della madre, nella casa di famiglia alla “Ruga delli Vaccari” senza mai porsi il problema
della spartizione di quel lascito. E così fu sino a quando Antonio conobbe Rosa Garofalo che nel 1884 sposò e con la quale andò a vivere sotto un altro tetto.
Il tempo e la naturale
successione degli eventi aveva quindi spezzato, almeno formalmente, l’unità della
famiglia (che, va detto, sotto il profilo dei legami affettivi non venne mai
meno). Man mano che i mesi passavano, poi, diventava chiaro che, con Antonio fuori casa e i due fratelli più giovani che
stavano per spiccare anche loro il volo, si avvicinava il momento di “spezzare” anche quella sorte di unità economica che li aveva contraddistinti. Ciò avvenne in realtà senza alcuna fretta, visto che ci vollero altri tre anni perché prendessero quell'appuntamento con il notaio.
IL CONTENUTO DELL'ATTO
Alla fine le divisioni furono
fatte e, si capisce dal tenore delle stesse, che esse erano il frutto di un
accordo bonario già concordato da tempo e non provenivano da delle rigide spartizioni
matematiche. Ognuno, infatti, tenne per sé non semplicemente "la propria parte", ma ciò
che più gli era utile, mettendo nel giusto conto il valore delle cose, ma senza pesarlo in maniera
ossessiva:
- la casa di Ruga Delli
Vaccari rimase a Pasquale e Stefano, i due fratelli che ancora vi vivevano con
la madre (negli anni successivi, poi, sappiamo che Pasquale a sua volta cedette
la sua metà dell’immobile a Stefano);
- la vigna de “Lo Britto”, la
chiusa di Repupa e quella di San Sebastiano invece andarono ad Antonio in cambio
(testuale) di una gonna di “saja scarlatina” (la saja teoricamente è un tessuto
povero, per “scarlatina” presumo si intenda il colore), di un corpetto di velluto
e di sei ducati;
- la titolarità del prestito
di trecento ducati rimase alla madre Caterina anche se in parte vincolato sino
alla sua morte. Per la precisione la somma vincolata era di 180 ducati che
sarebbero passati, dopo la sua dipartita, a ciascuno dei suoi tre figli nella misura di 60 ducati ciascuno. I rimanenti 120 ducati, al contrario, sarebbero rimasti nella sua più completa
disponibilità;
- altri 30 ducati (denaro di
famiglia) vennero assegnati sempre a Caterina. Tale somma, assieme ai 120 di
cui sopra serviva a ricostituire la dote di 150 ducati da lei portata a
Vincenzo per il matrimonio;
- ad Antonio rimase l’onere di
pagare un debito a Bartolomeo Calabrese, in quanto il medesimo era stato contratto per lavori alla
chiusa di Repupa;
- Antonio e Pasquale rimasero
coobbligati per la restituzione di un prestito ottenuto da Francesco Mannella (futuro suocero di Stefano che sposò in seguito sua figlia Caterina) e di uno, più piccolo, nei
confronti di loro cugino Bruno li Marzi. Si trattava di debiti a suo tempo da loro contratti congiuntamente e tali dovevano rimanere;
Facile constatare che, dopo
questo atto, la proprietà dei beni di famiglia aveva acquistato una sua logica che
soddisfaceva le esigenze di tutti.
Il notaio Zumpano ha continuato ad operare a
Marzi per i successivi venti anni e dei suoi servizi i Li Marzi si sono spesso serviti ogni volta che se ne presentava l'esigenza. Sfogliando i suo fogli di carta ruvida ho scoperto tante cose di loro ma, soprattutto, ho capito che davvero i Li Marzi erano una famiglia nel vero senso della
parola. Quella giovane vedova e quei tre ragazzotti adolescenti affrontarono la vita facendo un fronte comune. In tanti atti, infatti, si coglie in maniera tangibile ciò che traspare da questo: la volontà di condividere sia gli oneri, sia gli onori della loro esistenza.
Ad un certo punto, in questi volumi, Caterina non la ritroviamo più: probabilmente è il segnale che, ormai, anche per la madre, divenuta anziana, era giunto il momento di rendere l’anima a
Dio. E fu fortunata a farlo prima di vedere ciò che sarebbe accaduto ai suoi amati figli:
Stefano e Pasquale glieli uccisero, durante l'invasione del 1807, i francesi di
Napoleone. Quando li appesero al patibolo erano ancora una volta uno di fianco all’altro, fino
al loro ultimo respiro. Non so pensare a quali furono le ultime parole che si dissero, mentre si guardavano l'un l'altro negli occhi, con la consapevolezza che le loro vite stavano per finire. Impossibile anche solo immaginarlo.
"Avevano fomentato la rivolta” dissero di loro alla Gran Corte Criminale di Cosenza, ma in realtà erano solo due povere vittime di un esercito a cui
nulla interessava se non di opprimere e spargere terrore. (cliccare qui per la loro storia completa)
Antonio invece sparì, non
sappiamo come e non sappiamo quando, anche se accadde, molto probabilmente, in quel periodo. Niente e nessuno
mai lo potrà confermare, ma io sono convinto che la sua scomparsa sia legata ai medesimi fatti che portarono alla morte i suoi fratelli. Troppo strana la coincidenza. Del resto è noto che le famiglie
dei cosiddetti giustiziati, oltre a dover far fronte al dolore per la perdita
del congiunto, cadessero in disgrazia.
Ed è certo che, dopo quel 1807, di lui non si trova la benché minima traccia. Antonio sparì lasciando un tale vuoto dietro di sé da far pensare, come minimo ad una fuga precipitosa (magari per evitare la sorte toccata ai fratelli?) o, addirittura, alla sua morte. In quegli anni di tumulti assoluti non sarebbe stato certamente né il primo né l'ultimo caso di morte bianca.
E, si badi bene, il vuoto di cui sto parlando non è solo quello che pure ho avuto modo di riscontrare nelle mie ricerche, ma è quello che ci testimonia uno dei suoi più stretti famigliari nel documento che segue:
Siamo nel 1862, Stefano (un nome non a caso), un nipote di Antonio, si deve sposare e, secondo la legge occorre il consenso paterno. Suo padre però è deceduto e Stefano lo documenta regolarmente producendone il certificato di morte.
In subordine, come da prassi, viene richiesto il consenso del nonno o in alternativa la certificazione del suo decesso. Ed è qui che Stefano non sa che pesci prendere: non sa dove suo nonno Antonio è morto, non sa quando è morto e non sa nemmeno qual'è il suo ultimo suo luogo di residenza:
Quanto ai beni che quel giorno dal notaio erano stati così accuratamente suddivisi è inutile dire che, a seguito di quella sentenza capitale, furono tutti requisiti. Insomma, la famiglia venne quasi interamente spogliata e sterminata.
Quasi. Perché quel tramonto fu il preludio di una nuova alba. La speranza prese il nome di due cugini: di Raffaele, il piccolo orfano di Pasquale (che sarebbe il mio trisnonno) e di quello di un altro giovane ragazzo, anche lui senza più un padre, di nome Vincenzo (che sarebbe il trisnonno di Bruno). Ed è esclusivamente grazie a quell'esile filo che, dopo più di due secoli, un giorno io e Bruno abbiamo potuto ritrovarci assieme a Marzi e riunire idealmente quella famiglia.
ALBERO GENEALOGICO FAMIGLIA LIMARZI/LI MARZI
Quelle pagine scritte con pazienza dal notaio Zumpano sono solo un banale pretesto: spero che si sia capito che non è certamente l'aspetto burocratico della vicenda che mi interessa. Il mio intento è ben diverso: è quello di raccontare a tutti i Limarzi e Li Marzi (attaccato o staccato poco importa) una storia che è diversa da tutte le storie che conoscono perché è la LORO storia, la nostra storia.
Chi volesse leggere o scaricare quelle otto pagine le può trovare qui sotto. Ho messo qualche nota per agevolarlo sperando che ne possa trarre un po' di aiuto. Io invece la lettura me la sono sudata tutta dovendo interpretare una grafia d'altri tempi senza conoscere né il linguaggio burocratico del '700, né il latino.
Da ultimo non mi posso esimere dal fare un'ultima raccomandazione: chi ha la medesima pazienza del notaio Zumpano se le legga, gli altri lascino pure perdere. Che poi non si dica che non l'avevo detto.
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